Finalmente – finalmente? non so, per me stata sempre è una gran malinconia andare a scuola, una malinconia che mi prendeva non appena imboccavamo la via per raggiungere l’edificio scolastico e diventava sempre più chiara quando, in classe, si chiudevano la porta e le finestre e dalla cattedra cominciava la quotidiana lezione. Venne così il primo ottobre dell’anno scolastico 1931-32 e, con il grembiule nero, il colletto bianco e un fiocco rosso al collo, feci il mio ingresso nella scuola Giuseppe Mazzini, via Suppa, accanto all’edificio della Società Generale Pugliese di Elettricità- l’Enel di quei tempi- e il bel palazzo- foresteria delle Ferrovie dello Stato. A tracolla una vecchia cartella di cuoio, lucida, già usata dai miei fratelli. Era pesante, anche se il contenuto non era gran che. Il giorno prima, con mia sorella, eravamo andati dal negozio della vedova Trizio, la cartolibreria di via De Rossi angolo via Calefati, profumata di carte, d’inchiostro, di cartoni. La vedova Trizio, grassa, piccola, sempre vestita di nero, un po’ borbottona e attenta, con quei suoi occhi miopi, a controllare –una per una- le monete che versavamo per gli acquisti, consigliò lei stessa cosa comprare per il primo giorno di scuola della prima elementare: due quaderni, uno a quadretti, l’altro a righe, due pennini, un’asticciola, e basta. Bastava. Per regalo, e per augurio allo studente immalinconito, una bella carta assorbente, rosa, anzi due carte assorbenti, la seconda di colore scuro. Mia nonna volle aggiungere in quella pesante cartella il nettapenne, una serie di piccole stoffe cucite una sull’altra e fermate- al centro- da un grosso bottone. Prima di rimettere l’asta con il pennino ancora bagnato d’inchiostro nella cartella, dovevo pulire ben bene l’attrezzo. Per non sporcare le dita e non macchiare la vecchia cartella. Avveniva invece che, nei primi giorni, affondavamo le dita nel calamaio per dimostrare che già scrivevamo e anche per sentire quel buon odore d’inchiostro che ci faceva tanto studenti. Il primo giorno mia madre mi accompagnò per la lunga strada- tale a me sembrava – che portava in via Suppa. Vedevo il ” basso” della signora maestra, quella “ privata”, già con i bambini che lei intratteneva fino a mezzogiorno quando, al colpo di cannone sparato dagli spalti del Castello per annunciare l’ora ai cittadini, c’imponeva di cantare una canzoncina di cui ricordo solo alcuni versi che suonavano così: “… menzadì senanne/ l’angiue cantanne”, dove il mezzodì e gli angeli si univano in un melodico canto forse perché era anche l’ora nella quale tiravamo fuori dei cestini pane e ciliegie, pane e fichi, pane e un pomodoro, a me papà aggiungeva un grosso cioccolato.Ed era anche il tempo in cui finalmente potevamo bere, uno alla volta, all’unica brocca della signora maestra. “Ehi- avvertiva severa- un sorso solo. Non fate gli ingordi!”.
Ora era finito quel tempo, andavo con mia madre alla scuola pubblica, addio, vecchia maestra a tanto al mese, e il panchettino da portare da casa. Passavamo accanto al negozio del falegname-“ u meste d’asce”, il gran maestro dell’ascia- il quale era già al lavoro, un occhio alla strada dalla quale passavo; ed aveva già accanto lunghe mazze che solitamente ci regalava per farne fucili e spade e innocui armi di gran duelli cavallereschi. No, meste Coline, devo andare a scuola, non posso adesso chiederti le mazze, non posso tornare a fare il solitario re del lungo isolato. Quando arrivavamo all’altezza della chiesa dei Cappuccini, pardon Santa Croce, entravamo e mammà mi esortava a dire una giaculatoria alla Madonna così ti aiuta a studiare bene e a fare il bravo ragazzo. Poi il grande edificio di via Suppa. Tutti nel portone. Pieno, strapieno di mamme e figli, padri, nonni e vecchi zii. La folla era fermata da una gran vetrata accanto alla quale giganteggiava, in uniforme scura, il berretto con la visiera lucida ben calcato in testa, il gran maggiordomo di quel solenne ingresso: il basso e vecchio bidello. Con una mano teneva la porta socchiusa, pronto a correre alla vicina campanella che avrebbe suonato con tutto il suo vigore per aprire la vetrata e far entrare la marea dei familiari e degli studenti nel primo giorno di scuola. I ragazzi, tutti in grembiule nero, i colletti variamente ricamati e ritagliati, cartelle vecchie e nuove, erano un po’ incuriositi, un po’ annoiati, non sapevano cosa l’aspettasse dietro la vetrata . In quel gran bailamme entrò quello che sarebbe stato un mio amico per gli anni della scuola: Mangialardo, figlio di un contadino che aveva il suo orto al rione Picone. Era strabico, sulla testa tutta rasata esibiva una lunga cicatrice di vecchia data – una pietra di punta?-, non aveva colletto e fiocco rosso. Il grembiule gli stava stretto, nel suo bel mezzo dominava una bella pezza colorata. Sì, proprio dove solitamente erano cuciti i lunghi nastrini rossi che indicavano la classe da frequentare: per la prima elementare la striscia era solo una, due per la seconda, tre per la terza. La quarta e la quinta erano mostrate invece con i numeri romani, IV e V, anch’essi in rosso. Mangialardo non aveva la cartella. Fece il suo ingresso con una lunga fune alla quale era legata una vecchia padella. Sulla padella c’erano due quaderni, l’asta con il pennino naturalmente spuntato. Il bidello suonò la campana, la folla si precipitò alla vetrata: era il primo giorno di scuola dell’anno scolastico 1931-32, nono dell’era fascista.